Storie di deportati e di deportazioni

Tra le innumerevoli testimonianze lasciate dai deportati nei campi sterminio, abbiamo scelto alcuni racconti di vita, storie di gente comune, di internati, narrate attraverso il filtro della memoria. Abbiamo evitato volutamente l'impatto visivo con la fotografia, spesso troppo impudica nel ritrarre il dolore dell'essere umano, preferendo dare spazio all'immaginario infantile e all'impatto emotivo della pittura e della letteratura.

CAROLA


" La ragazza fantasticava di un prato ". Tanta erba da mangiare. Mangiare, mangiare ancora. Mangiare tutte quelle belle bocche di leone senza paura. Bocche di leone pulite, fresche, raccolte nel prato, non sul polveroso bordo delle strade. Che cos'altro poteva sperare? E così i mesi erano passati. Impossibile pensare all'inverno trascorso: giorni, notti entrambi temuti. I turni di giorno paventati per la tanta stanchezza dopo una notte disturbata dalle donne che rientravano dal loro turno, dal rumore dei loro zoccoli di legno. Le luci venivano accese, per permettere loro di cercare i pidocchi e le loro uova. Forse erano troppo stanche per questa attività, ma non sarebbero state in grado di dormire affatto se non si fossero uccisi questi parassiti che si cibavano del tuo sangue e che lasciavano punture che prudevano e che portavano malattie come il tifo. Turni di notte, paventati perché era troppo buio per piegarti rapidamente a raccogliere tutta l'erba che potevi. Fame...fame... Hai mai guardato un prato con gli occhi di una prigioniera del K.Z. ? "

Carola Cohen, Il prato, scritto alcuni anni dopo la liberazione dal campo di lavoro K.Z. Mauthausen, il 6 maggio del 1945. Pubblicato in Triangolo Rosso, a cura dell'ANED, anno XX, n. 3 settembre 2000.

Carola Cohen, psicoterapeuta, è nata a Berlino nel 1927 da una famiglia di benestanti ebrei tedeschi. Nel 1942, insieme alla famiglia fu deportata a Terezin e, successivamente, ad Auschwitz e Mauthausen. Nel 1967 è tornata in Italia, il primo luogo dove si è sentita 'libera', e da allora vive e lavora a Roma.

Per la realizzazione di questa sezione sono stati accostate narrazioni e immagini che raccontino la percezione dell'internamento da parte dei deportati, ma anche i loro sogni, la rievocazione del passato e il presagio del futuro.

ELIA


"Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha trasformato la mia vita in una lunga notte, sette volte maledetta e sette volte sigillata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini, i cui corpi vidi trasformarsi in ghirlande di fumo sotto un muto cielo blu. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumavano la mia fede per sempre. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l'eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e trasformarono i miei sogni in polvere. Non dimenticherò mai queste cose, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. " Durante l'impiccagione di un bambino, alla quale il campo fui costretto ad assistere, sentii qualcuno chiedere: "Dov'è Dio adesso? E udii una voce dentro di me rispondergli: Egli è qui - Egli è appeso qui su questa forca. "

"Sia benedetto il nome di Dio? Perché, ma perché io avrei dovuto benedirlo? Ogni fibra di me si ribellava. Perché Egli aveva condannato migliaia di bambini a bruciare nelle Sue fosse comuni? Perché aveva continuato a far funzionare sei forni crematori giorno e notte? Perché con la sua forza aveva creato Auschwitz, Birkenau, e tante altre fabbriche di morte? Non ero più in grado di emettere un lamento. Al contrario, mi sentivo molto forte. Io ero l'accusatore, Dio l'imputato."

Elie Wiesel. La notte, traduzione di Daniel Vogelmann. Firenze: La Giuntina, 1992

Eliezer Wiesel, detto Elie (Sighetu Marmatiei, 30 settembre 1928 ’ New York, 2 luglio 2016), è stato uno scrittore, giornalista, saggista , filosofo, attivista per i diritti umani e professore rumeno naturalizzato statunitense, di origine ebraica e poliglotta, nato in Romania e sopravvissuto all'Olocausto. È stato autore di 57 libri, tra i quali La notte, resoconto autobiografico in cui racconta la sua personale esperienza di prigioniero e superstite nei campi di concentramento di Auschwitz, Buna e Buchenwald. Wiesel è stato anche membro dell'Advisory Board del giornale Algemeiner Journal.Nel 1986 fu insignito del premio Nobel per la pace .

L'arrivo nel lager di Helga Weissova

Disegno di una baracca rinvenuto nel campo di Trezinstadt.

FELIX


Felix Nussbaum nacque nel 1904 da una famiglia borghese di origine ebraica. Durante il suo percorso di studi artistici incontrò la pittrice polacca Felka Platek, anch'essa proveniente da una famiglia ebraica, con la quale si sposò nel 1937. Nel 1933, con l'avvento del nazismo, Nussbaum fuggì prima in Italia e poi in Belgio, inizialmente ad Ostenda e in seguito a Bruxelles. Non essendo stato in grado di ottenere la cittadinanza belga, venne arrestato all'inizio del secondo conflitto mondiale in quanto cittadino tedesco, subendo la deportazione presso il campo di Saint-Cyprien, nel sud della Francia. Dopo la resa, Nussbaum e la moglie fuggirono nuovamente a Bruxelles, riuscendo così ad evitare la consegna alle autorità tedesche. Rimasti nascosti nella capitale belga per quasi quattro anni, i due coniugi furono arrestati il 20 giugno 1944 in seguito alla denuncia da parte di un vicino di casa. Deportati il 31 luglio ad Auschwitz, Nussbaum e la Platek vennero uccisi nelle camere a gas il 2 agosto dello stesso anno.

Felix Nussbaum, autoritratto.

Felix Nussbaum, The damned, 1943-44.

FRAU VITA


Disegno di Helga Wiessova, deportata a Terezinstadt all'età di 12 anni e sopravvissuta ad Auschwitz e Mauthausen.

Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata «comandata» al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa. Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera, quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni, stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario...
Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati...

Primo Levi, La tregua, 1963.

HURBINEK


Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi (...) Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

Primo Levi, La tregua, 1963.

Primo Levi nasce a Torino in una famiglia ebraica il 31 luglio 1919. Le leggi razziali introdotte nel 1938 precludono lo studio universitario agli ebrei, ma concedono di terminare gli studi a quelli che lo hanno già intrapreso. Levi è in regola con gli esami e si laurea nel 1941 a pieni voti e lode. Nel 1943 si inserisce in un nucleo partigiano operante in Val d'Aosta. Dopo poco, nel dicembre 1943, viene arrestato dalla milizia fascista e, il 22 febbraio 1944, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Levi rimarrà nel lager per undici mesi, fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa. L'esperienza nel campo di concentramento emerge nei romanzi Se questo è un uomo (pubblicato una prima volta nel 1947 e, nuovamente, nel 1956), La tregua (1962) e I sommersi e i salvati (1986). Muore l'11 aprile 1987, a Torino.

Disegni dei bambini del campo di Terezinstadt

UN PUGILE


Johann Trollmann nacque a Wilsche, nella Bassa Sassonia, il 27 dicembre del 1907 da una famiglia di etnia sinti. Soprannominato Rukelie, iniziò la sua carriera verso la seconda metà degli anni '20, ma divenne famoso nel suo paese verso la fine del decennio. Il suo stile era caratterizzato da brevi movimenti, simili a dei "balletti" e che ricordano molto a quelli che, molti anni dopo, avrebbero caratterizzato lo stile di Muhammad Ali. Il giovane e carismatico Trollmann fu particolarmente apprezzato dalle fan donne, con cui flirtava spesso durante i suoi incontri. Nell'aprile del 1933 in base alle Leggi di Norimberga promulgate dalla dittatura di Adolf Hitler, gli ebrei non poterono più boxare, così la corona dei mediomassimi, abbandonata dall'ebreo Eric Seelig, fu contesa il 9 giugno del 1933 tra Adolf Witt e Trollmann. Nonostante stesse vincendo, i giudici di gara nazisti, decretarono la fine dell'incontro con un "no decision", ma dopo un'insurrezione del pubblico, furono costretti a dichiarare Trollman vincitore e, quindi, campione. Tuttavia la federazione gli tolse il titolo, costringendolo a lottare, il 21 luglio, contro Gustav Eder. Per questo incontro gli fu vietato di muoversi dal centro del ring, pena la revoca della licenza. Trollmann si presentò all'incontro con i capelli tinti di biondo e il corpo cosparso di farina, per rappresentare una caricatura dell'ariano stereotipato, ma fu sconfitto in cinque round.

Le persecuzioni razziali del Terzo Reich verso rom e sinti compromisero non solo la sua carriera, ma anche la sua vita. Divorziò, dovendo permettere alla moglie di ambiare il cognome. Per non essere internato nei campi di concentramento dovette ricorrere alla sterilizzazione. Nel 1939 fu chiamato dalla Wehrmacht, l'esercito tedesco per combattere al fronte. Tuttavia al suo ritorno, nel 1941 la Gestapo lo arrestò e lo deportò nel campo di Neuengamme, vicino Amburgo. Qui, per una razione maggiore di cibo, era costretto a combattere contro le guardie del campo, sebbene fosse ormai debole e malato. Morì il 9 febbraio 1943, secondo alcune fonti ucciso da un colpo di arma da fuoco, secondo altre a colpi di badile da un Kapo che aveva appena sconfitto in un incontro di pugilato.


La storia di Johann Trollmann è stata narrata nell'ultimo libro del premio nobel per la letteratura Dario Fo, "Razza di zingaro", 2015.

UNA NEONATA


Un giorno, mentre testimoniavo in una scuola, una ragazzina mi ha chiesto se qualcuno era mai uscito vivo dalla camera a gas. I suoi compagni l'hanno presa in gito, come se non avesse capito nulla. Coma sopravvivere in quelle condizioni al gas mortale inventato per uccidere? Impossibile. Per quanto la sua domanda potesse sembrare assurda, era pertinente, perché è accaduto. Poche persone hanno visto e possono raccontare questo episodio... eppure è vero. Un giorno, mentre tutti avevano cominciato a lavorare normalmente all'arrivo di un convoglio, uno degli uomini incaricati di togliere i corpi dalla camera a gas sentì un rumore strano. Non era così raro sentire rumori insoliti; spesso l'organismo delle vittime continuava a liberare gas. Questa volta però sosteneva che il rumore fosse diverso. Ci fermammo per ascoltare, ma nessuno sentì niente e pensammo che avesse avuto un'allucinazione. Qualche minuto più tardi ripeté che questa volta era certo di aver udito un rantolo. Facendo attenzione, anche noi riuscimmo a percepire il rumore, una sorta di vagito. All'inizio i gemiti erano intervallati, poi aumentarono fino a divenire un pianto continuo che tutti identificammo con il pianto di un neonato. L'uomo che se ne era accorto per primo si mise alla ricerca del punto da dove proveniva il rumore e scavalcando i corpi trovò una bambina di due mesi ancora attaccata al seno della madre, che piangeva perché non sentiva più arrivare il latte. L'uomo prese il bebè e lo portò fuori dalla camera a gas. Sapevamo che era impossibile tenerlo con noi e soprattutto nasconderlo o farlo accettare ai tedeschi. Infatti, quando la guardia lo vide, non sembrò dispiaciuto di dover uccidere un neonato. Sparò un colpo e la bambina che era miracolosamente sopravvissuta al gas morì. Nessuno poteva sopravvivere. Tutti dovevamo morire, noi compresi: non si trattava che di questione di tempo. Qualche anno fa ho chiesto al caporeparto del più grande ospedale pediatrico di Roma come si spiegava il fenomeno. Mi ha detto che non era impossibile che la bambina, che stava poppando, sia stata isolata dalla forza del succhio al seno della madre; ciò avrebbe limitato l'assorbimento del gas mortale.

Sholomo Venezia, nato a Salonicco nel 1923 e morto a Roma nel 2012, è stato un importante testimone dei campi di sterminio nazisti. Deportato nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau, fu obbligato a lavorare nei Sonderkommando, squadre speciali composte da prigionieri e destinate alle operazioni di smaltimento e cremazione dei corpi dei deportati uccisi con il gas. I componenti di queste squadre venivano periodicamente soppressi per mantenere il segreto circa lo svolgimento delle operazioni: la squadra successiva, come primo incarico, bruciava i cadaveri dei predecessori. Venezia fu uno dei pochi sopravvissuti: l'unico in Italia, una dozzina in tutto il mondo. La spaventosa realtà vissuta nel lager lo portò a una profonda sofferenza interiore e a un silenzio durato più di quarant'anni, anche per il tremendo senso di colpa. Venezia trovò la forza di superare il riserbo nel corso degli anni Novanta, cominciando a raccontare quanto aveva sofferto e arrivando, nel 2007, alla pubblicazione di "Sonderkommando Auschwitz", una delle testimonianze più sconvolgenti sulle atrocità compiute durante la Shoah.

Disegno dipinto da David Olere, Sonderkommando di Auschwitz.
Le divise degli internati disegnate dai bambini di Terezinstadt.